Nella sola parte polacca della Slesia, al confine con Germania e Repubblica Ceca, la Commissione Europea stima che la decarbonizzazione potrebbe costare la perdita di 78 mila posti di lavoro, legati alla filiera dell’estrazione e dell’uso del carbone. In tutto il mondo sono molte le regioni la cui economia è basata sullo sfruttamento delle risorse fossili. Comunità di persone sulle quali la transizione energetica, se non adeguatamente guidata, rischia di produrre nuove diseguaglianze. Per rispondere a questo problema, già negli anni Novanta del secolo scorso i sindacati del Nord America introdussero il concetto di Just Transition, l’idea di una transizione energetica giusta e inclusiva, che non abbandoni nessuno e si faccia carico delle comunità su cui l’impatto della decarbonizzazione sarà più pesante. Non è solo una questione di posti di lavoro: le conseguenze saranno ampie e trasversali su tutte le dimensioni della vita sociale. Un approccio equo alla transizione energetica quindi dovrà prevedere la redistribuzione dei benefìci, ossia la ripartizione tra i diversi Paesi – e all’interno di ciascun Paese – della nuova ricchezza generata. La transizione come risposta alla povertà energetica Oggi ancora molte aree del pianeta sono interessate da quella che viene definita la povertà energetica, la condizione per cui non si è in grado di assicurare un adeguato riscaldamento (o raffrescamento) alla propria abitazione, né di disporre di una sufficiente fornitura di energia per i servizi domestici. Un problema che non riguarda solo i Paesi in via di sviluppo, come quelli dell’Africa subsahariana dove 600 milioni di persone non hanno ancora accesso all’elettricità. Si stima che anche all’interno dell’Unione Europea vivano circa 45 milioni di poveri dal punto di vista energetico, con riflessi anche sulla salute fisica e mentale, da cui deriva anche un circolo vizioso di costi sociali. Squilibri da affrontare quanto prima, rispetto ai quali la transizione energetica rappresenta un’irripetibile opportunità. L’aspetto più delicato riguarda le regioni con un’economia basata soprattutto sulle fonti fossili. Se la scomparsa di alcuni posti di lavoro è inevitabile, governi nazionali e agenzie sovranazionali possono intervenire con programmi di riqualificazione del personale e aggiornamento professionale per offrire nuove opportunità di lavoro, a partire da un reimpiego nelle attività legate alle fonti rinnovabili. Oltre, naturalmente, a un sistema di ammortizzatori sociali capaci di assorbire le difficoltà della prima fase di passaggio. L’esempio dell’Europa L’Unione Europea è tra i primi soggetti a essersi mossa in questa direzione, con grande ambizione. Nell’ambito dello European Green Deal è stato presentato un programma per la Just Transition con un fondo per mobilitare oltre 150 miliardi di euro tra il 2021 e il 2027 e organizzare la transizione energetica in modo bilanciato. Lo scopo è far sì che il passaggio verso “un'economia climaticamente neutra avvenga in modo equo e non lasci indietro nessuno”. Di fatto un sostegno per tutte le industrie che verranno penalizzate: da un lato quelle estrattive, dal carbone alla lignite, dalla torba allo scisto bituminoso; dall’altro le filiere produttive a elevate emissioni di anidride carbonica e altri inquinanti, come quelle per la produzione di acciaio, fertilizzanti, carta, cemento e alluminio. Il solo settore del carbone impiega oggi 230 mila persone, distribuite in 11 Paesi della Ue (dati aggiornati al 2020). Le previsioni sono di un buon ritorno sull’investimento. Già entro il 2030 si stima che l’Europa beneficerà della transizione energetica con un valore aggiunto compreso tra i 47 e gli 80 miliardi di euro. E a lungo termine le cifre saranno ancora più importanti, superando l’ammontare degli investimenti. Necessariamente, quindi, la redistribuzione della ricchezza dovrà essere sbilanciata a favore dei Paesi che nella prima fase saranno più penalizzati. La transizione giusta come tema globale Così come la lotta al cambiamento climatico, anche la Just Transition è un tema di portata mondiale. Se a livello teorico il tema ha oltre vent’anni di vita, è del 2013 la nascita della Climate Justice Alliance, una rete globale di organizzazioni non governative che affrontano in parallelo i temi della sostenibilità e delle disuguaglianze, concentrandosi soprattutto sugli Stati Uniti. Sull’America meridionale è attiva invece la CEPAL (Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi) mentre in Africa uno degli attori di riferimento è la fondazione RES4Africa. Di respiro globale sono invece gli interventi dell’Onu, a partire da quelli centrati sugli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, in particolare il settimo (energia pulita e accessibile a tutti) e l’ottavo (un lavoro dignitoso per tutti). La transizione energetica è poi, naturalmente, il cardine dell’obiettivo 13, la lotta al cambiamento climatico, come ribadito in occasione delle ultime conferenze mondiali sul clima. In realtà già alla COP 21 di Parigi, la conferenza con l’accordo globale per la riduzione delle emissioni, era stata citata la Just Transition e la necessità di rendere esplicito il riferimento a una transizione energetica equa e bilanciata, che non lasci indietro nessuno. Una direzione su cui oggi sono tutti d’accordo. La strada da seguire.